di Marina Bisogno
Ad occhio e croce direi che sono fratelli. Due bambini: tre, quattro anni lui, sei, sette anni lei.
Di fronte a loro ci sto io, con Tchaikovsky e il suo Lake in moonlight nelle cuffie e nei pensieri. E ci sta pure un uomo con un borsone che tiene con i piccoli un dialogo fatto di sguardi, accenni, raccomandazioni tacite. La bambina mi guarda, mi scruta con questi occhi neri giganteschi e uno zainetto rosa appoggiato sulle gambine, da signorina perbene. Siccome lei mi fissa, io le sorrido. Il bambino accanto a lei, invece, canta, scherza, non sta fermo un attimo: fa ridere lei e l’uomo che immagino sia il padre. Dai tratti somatici e dal colore della pelle direi che sono originari del Medio Oriente, quale paese non saprei, però. Entrambi i piccoli hanno uno sguardo stellare: pupille nerissime e scintillanti, uno spettacolo.
Mentre me lo godo penso a come sia umanamente possibile odiarli, respingerli, tenerli ai margini. Vorrei conoscere la loro storia, vorrei sapere chi sono, cosa ci fanno in un tardo pomeriggio, appena dopo il tramonto, su un treno della linea circumvesuviana partito da Napoli. Dov’è la loro madre? Li sta aspettando da qualche parte? È inevitabile per me chiedermelo. Il bambino è vivace, la bambina con la sua compostezza lo tiene a bada e all’occorrenza lo riprende. Non vuole dia fastidio. Ma nessuno infastidisce nessuno.
La piccola apre la borsetta, si accerta che io stia guardando, tira fuori dei fermagli, dei giochini, un fazzoletto appallottolato: il fratello ha starnutito e si lamenta del moccio. Si muove come fosse la responsabile della situazione, con una sicurezza che non è propria dell’infanzia che conosco io. Lei mi guarda, io la guardo, ancora sorrisi, senza fiatare. Poi, è la mia fermata: lei mi guarda, io la guardo, senza dirci ciao. Penso solo: buona fortuna.
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