di MARINA BISOGNO
A sedici anni volevo essere Dolores O’Riordan: la ragazza smilza di Limerick, con gli occhi di ghiaccio e la voce che prestava al rock i misteri della sua terra, l’Irlanda. Nel novembre del 1999 i Cranberries sono da almeno sei anni una delle band più famose d’Europa, grazie a pezzi come Linger, Dreams, Zombie, solo per citarne qualcuno. Bury the Hatchet è il loro quarto album e l’ho ascoltato a ripetizione, propinandolo a compagni di classe ed amici. Lo regalai a mia sorella per il compleanno, anche se lei, più giovane di me, non sapeva chi fossero questi Cranberries e si lagnava del fatto che avevo utilizzato l’anniversario della sua nascita per fare un dono a me e non a lei. Oggi, che è una donna di trentatré anni, sarebbe capace di tirarmi dietro il disco e di togliermi il saluto: all’epoca assecondò il mio tentativo di avvicinarla ad una musica che non gradiva. Il disco ce l’ha ancora, anche se l’ha lasciato nella stanza a casa dei miei, dove qualche volta torna. L’uscita del disco coincise con il lancio di Promises, il primo singolo, a cui seguì nell’estate del 1999 Animal Instinct e poi il celeberrimo Just my imagination. Ho trascorso ore davanti alla tivù a guardare il video di Just my imagination: Dolores esce di casa con addosso un giubbotto di pelle, gli anfibi e un lettore cd e canta: “We used to be so free/We were living for the love we had/Living not for reality”. All’epoca mi pareva una frase sognante, mi piaceva l’idea che si potesse raggirare la realtà con il pensiero, lo diceva anche John Lennon che dai suoi demoni si è salvato con la musica, ma pure inseguendo la bellezza a partire da quello che pensava e diceva. Una specie di disciplina, di esercizio che consente di accostarsi a chiavi di lettura precluse ad altri, meno fantasiosi o solo meno scaltri. Al mio compagno di banco del disco piaceva Dying in the Sun, una ballata lenta e malinconica. Io ed un’altra amica, stesso liceo, stessa classe, amicizie di un’età pazzesca, lo prendevamo in giro per questa preferenza. Io prediligevo Loud and clear, Delilah, You and me e Desperate Andy. “The world is your oyster now/You can do as you want to do/The world is your oyster now/So go out and get high and get whatever you want to”. Insomma, vivevo in quel disco, respiravo in quel disco. Se metto su questi pezzi, adesso, assieme a voi, finisco in quei giorni che avrei voluto infiniti. Dopo lo struggimento dei quattordici/quindici anni, costretta a trascorrere il sabato in palestra a fare ginnastica correttiva a causa di una scoliosi che poteva darmi problemi seri, mi stavo riappropriando della mia adolescenza. Avevo scoperto quello che la musica poteva farmi (bene, tanto bene) e soprattutto compresi il potere dell’autoironia. A prendere in giro me stessa ho imparato in seconda liceo classico, quando avevo in testa una massa di capelli ricci color prugna, tre buchi a lobo, non indossavo la gonna neanche per scommessa e avevo un debole per la cantante dei Cranberries, mentre le mie coetanee invidiavano Jennifer Lopez. La voce di Dolores prima ti incantava e poi ti graffiava: esprimeva un dolore primordiale. Quella irlandese minuta, dal look cangiante ed i tatuaggi, che pareva una eterna adolescente, era una frontwoman e resta per me l’icona di una stagione della vita.
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