a cura di Antonio Raimondi
Quest’oggi sul Nostalgico rammentiamo un martire del nostro paese, il cui assasinio diede il via al periodo più duro della nostra Storia nazionale ed europea:
Giacomo Matteotti
(Fratta Polesine, 22 maggio 1885 – Roma, 10 giugno 1924)
è stato un politico, giornalista e antifascista italiano, segretario del Partito Socialista Unitario,
formazione nata da una scissione del Partito Socialista Italiano al Congresso di Roma dell’ottobre 1922.
Fu rapito e assassinato da una squadra fascista capeggiata da Amerigo Dumini per volontà di Benito Mussolini, a causa delle sue denunce dei brogli elettorali e del clima di violenza messi in atto dalla nascente dittatura nelle elezioni del 6 aprile 1924 e delle sue indagini sulla corruzione del governo, in particolare sulla vicenda delle tangenti della concessione petrolifera alla Sinclair Oil.
Proprio il giorno in cui venne ucciso, Matteotti avrebbe dovuto infatti presentare un nuovo discorso alla Camera dei deputati, dopo quello sui brogli del 30 maggio, in cui avrebbe rivelato le sue scoperte riguardanti lo scandalo finanziario coinvolgente anche Arnaldo Mussolini, fratello minore del Duce.
Il corpo di Matteotti fu ritrovato circa due mesi dopo dal brigadiere Ovidio Caratelli.
Il 3 gennaio 1925, di fronte alla Camera dei deputati, Benito Mussolini si assunse pubblicamente la «responsabilità politica, morale e storica» del clima nel quale l’assassinio si era verificato.
Matteotti fu eletto in Parlamento per la prima volta nel 1919, in rappresentanza della circoscrizione Ferrara-Rovigo.
Fu rieletto nel 1921 e nel 1924, e veniva soprannominato “Tempesta” dai suoi compagni di partito per il suo carattere battagliero e intransigente.
In pochi anni, oltre a preparare numerosi disegni di legge e relazioni, intervenne 106 volte in Aula, con discorsi su temi spesso tecnici, amministrativi e finanziari.
Per il carattere meticoloso e l’abitudine allo studio, passava ore nella Biblioteca della Camera «a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare, con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose».
Dopo i fatti del dicembre 1920 a Ferrara, Matteotti divenne il nuovo segretario della Camera del Lavoro cittadina, e questo produsse un rinnovato impegno nella sua lotta antifascista, con frequenti denunce delle violenze che venivano messe in atto.
Nel 1921 pubblicò una famosa Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, in cui si denunciavano, per la prima volta, le violenze delle squadre d’azione fasciste durante la campagna elettorale delle elezioni del 1921.
Nell’ottobre del 1922 Matteotti fu espulso dal Partito Socialista Italiano con tutta la corrente riformista legata a Filippo Turati:
i fuoriusciti fondarono il nuovo Partito Socialista Unitario di cui Matteotti divenne segretario.
Nel 1924 venne pubblicata a Londra, dove Matteotti si era recato in forma strettamente riservata nell’aprile di quell’anno, la traduzione del suo libro Un anno di dominazione fascista, col titolo:
“The Fascists exposed; a year of Fascist Domination”,
in cui riportava meticolosamente gli atti di violenza fascista contro gli oppositori.
Nell’introduzione del libro, Matteotti ribatteva puntualmente alle affermazioni fasciste, in particolare a quelle che affermavano l’uso della violenza squadrista utile allo scopo di riportare il paese a una situazione di legalità e “normalità” col ripristino dell’autorità dello Stato dopo le violenze socialiste del biennio rosso, affermando la continuazione delle spedizioni squadriste contro gli oppositori anche dopo un anno di governo fascista.
Inoltre sosteneva che il miglioramento delle condizioni economiche e finanziarie del Paese, che stava lentamente riprendendosi dalle devastazioni della prima guerra mondiale, era dovuto non all’azione fascista, quanto alle energie popolari;
tuttavia, ancora secondo Matteotti, a beneficiarne sarebbero stati solo gli speculatori e i capitalisti, mentre il ceto medio e proletario ne avrebbe ricevuto una quota proporzionalmente bassa a fronte dei sacrifici.
Il 30 maggio 1924 Matteotti prese la parola alla Camera dei deputati per contestare i risultati delle elezioni tenutesi il precedente 6 aprile.
Mentre dai banchi fascisti si levavano contestazioni e rumori che lo interrompevano più volte (un deputato fascista, Giacomo Suardo, abbandonò l’aula per protesta), Matteotti denunciò una nuova serie di comprovate violenze, illegalità e abusi commessi dai fascisti per riuscire a vincere le elezioni in un discorso che sarebbe rimasto famoso:
«Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni della maggioranza. […]
L’elezione secondo noi è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. […]
Per vostra stessa conferma [dei parlamentari fascisti] dunque nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà. […]
Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse.»
Terminato il discorso disse ai suoi compagni di partito:
«Io, il mio discorso l’ho fatto.
Ora voi preparate il discorso funebre per me.»
In un’altra occasione aveva pronunciato una frase che si sarebbe rivelata profetica:
«Uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai.»
La proposta di Matteotti di far invalidare l’elezione almeno di un gruppo di deputati – secondo le sue accuse, illegittimamente eletti a causa delle violenze e dei brogli – venne respinta dalla Camera con 285 voti contrari, 57 favorevoli e 42 astenuti.
Renzo De Felice ha definito «assurda» l’interpretazione di questo discorso come una richiesta di Matteotti basata su una realistica possibilità di ottenere un successo:
secondo lo storico, Matteotti non mirava realmente all’invalidamento del voto, bensì a dare il via dai banchi del parlamento a un’opposizione più aggressiva nei confronti del fascismo, accusando in un colpo solo sia il governo fascista che i «collaborazionisti» socialisti.
Una volontà di opposizione intransigente che aveva già espresso in una lettera a Turati precedente alle elezioni:
«Innanzitutto è necessario prendere, rispetto alla Dittatura fascista, un atteggiamento diverso da quello tenuto fino qui;
la nostra resistenza al regime dell’arbitrio dev’essere più attiva, non bisogna cedere su nessun punto, non abbandonare nessuna posizione senza le più decise, le più alte proteste.
Tutti i diritti cittadini devono essere rivendicati;
lo stesso codice riconosce la legittima difesa.
Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e libertà, […] perciò un Partito di classe e di netta opposizione non può accogliere che quelli i quali siano decisi a una resistenza senza limite, con disciplina ferma, tutta diretta ad un fine, la libertà del popolo italiano.»
In questa sua intransigenza – tuttavia – Matteotti non riusciva a trovare un collegamento con l’operato e l’ideologia dei comunisti, che vedevano tutti i governi borghesi uguali fra loro e quindi da combattere indifferentemente:
«Il nemico è attualmente uno solo, il fascismo.
Complice involontario del fascismo è il comunismo.
La violenza e la dittatura predicata dall’uno, diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto dell’altro.»
Il discorso del 30 maggio, secondo lo storico Giorgio Candeloro, «diede a Mussolini e ai fascisti la sensazione precisa di avere di fronte in quella Camera un’opposizione molto più combattiva di quella esistente nella Camera precedente e non disposta a subire passivamente illegalità e soprusi».
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