di GIANFRANCO DE BIASI
Le parole erano importanti
In origine la parola era il senso. In origine la parola era il verbo.
Ci siamo prodigati, nel corso del tempo, a svuotare del loro senso le parole.
Esse non sono più ancorate ad un significato, sono ridotte a mera funzione di comunicazione da segnaletica. Sono diventate sterili, le parole. Non partoriscono più i frutti di una poiesis, non creano, indicano come può indicare un cartello di stop o di divieto di transito.
Il processo di messa a morte del senso delle parole è cominciato molto tempo fa. Ma scorgere, in casi particolari, l’importanza ed il conforto del loro senso, era ed è un ausilio per la sopravvivenza. Non delle parole bensì dell’uomo stesso.
I media e la comunicazione digitale hanno fatto scempio della parola facendo sì che si accettasse qualsiasi accezione pur di ‘dire qualcosa’, senza scendere a fondo e verificare che, magari, l’etimo della parola usata baldanzosamente, indica il contrario di quanto si vuole significare.
In momenti storici delicati quale quello che stiamo vivendo, accade così che il mainstream mediatico, i guru della comunicazione, gli influencer del sottovuoto si diano implicitamente appuntamento per concertare il nulla da loro abitato, pretendendo di riempire la vita altrui.
Come esempio, da quasi venti anni ci hanno addomesticato alla evidenza di essere in crisi, una crisi senza fine, mentre l’etimo della parola ha implicazioni positive: discernere, giudicare, valutare, quindi: scegliere!
Ne è che i fondamentalisti del pensiero economico che propinano questa crisi e lo spaccio delle politiche di austerity, non hanno mai operato una scelta e, con essi, i politici. Non scegliamo, ergo, non superiamo: non andiamo oltre. Il liberismo, così, continua a divorare masse di poveri, distruggendo ambiente e ceto medio ma arricchendosi nei ghirigori delle speculazioni che sanno disegnare…
Marciamo in una crisi imperitura. mentre il cielo ci cade addosso e la terra ci viene meno da sotto i piedi…
Allo spaccio della parola “crisi”, come se non bastasse, si è ora associato (per la gioia di quanti pensano che due teste diverse siano in grado di complottare e di tenere addirittura il segreto!) il termine emergenza.
(…)”Si tratta di una parola in cui il significato negativo ha schiacciato ogni altro. Ciò che emerge, cioè, con la bella immagine dell’etimologia, ciò che esce all’improvviso dalla superficie calma delle acque, poteva essere tanto qualcosa di bello e fortunato quanto qualcosa di pericoloso e catastrofico. È stato il naturale polarizzarsi delle parole neutre – così come la fortuna latina è diventata positiva, e la crisi greca è diventata negativa – che ha portato ad un significato scuro, forse sotto la particolare influenza dell’inglese [emergency], usato come eufemismo per allarme”(cfr.: unaparolaalgiorno.it).
Crisi ed emergenza: l’umano deve vivere una condizione di anormalità permanente; deve dimenticarsi dei sogni, dei tramonti, delle api sui fiori, delle primavere, dell’amore. Deve essere educato al passaggio verso l’anestesia del pensiero critico. Abominio, allontanarsi dalla sua stessa natura di umano!
Si, ci stiamo educando all’abominio. Ripudiando prima le parole, il verbo, il padre e ora accettando di buon grado che ci si rinchiuda, gregge nell’ovile. In silenzio. Se si possiede un pensiero critico, si è bollati dalla mediocrità maggioritaria quali, ad esempio, negazionisti, riduzionisti, etc.
In epoca pandemica, molti politici usano, baldanzosi, la parola “coprifuoco” senza pensare all’orrido che questa parola comporta nella sua accezione più consueta. Vi sono tanti sinonimi carini, se proprio vogliamo edulcorare!
Nel medioevo, per evitare incendi, nelle città che erano per lo più costruite in legno, si cospargeva la cenere sul fuoco; bisognava coprire il fuoco. Poi sono venuti i bombardamenti e poi il covid 19… ma queste sono storie diverse.
Perché le parole erano importanti, sin tanto che l’uomo ha riconosciuto il loro senso. Quando, a furia di tormentarle, le ha svuotate del loro significato, ha trovato che egli stesso, l’uomo, non avesse più un senso. E allora, che viva il coprifuoco! Che nell’ovile non si beli!
Crisi ed emergenza ci dicono (impongono) che la normalità non deve più esistere.
Paradosso: l’imbroglio delle parole! Chi ci imbroglia con le parole, lo fa con azioni che negano un principio: non è la confusione o il caos premeditato ed inevitabile, non è un disegno entropico. Si sono banalizzate le rivoluzioni così come i tatuaggi dei Maori; hanno sottratto ai rivoluzionari le armi diventando tutti rivoluzionari seduti al desco della buona creanza…La globalizzazione ha svuotato la carica antagonista dei (un tempo) no global, trasformando la massaia col ragù in pseudo-intellettuale ambientalista (!); uno spot commerciale in (unica) forma di poesia contemporanea (!) e tutto il resto in un broglio in cui fare entrare le parole appropriate equivale a chiudere la porta di ogni comunicazione sensata.
Ci vogliono rubare la normalità. Hanno fregato la normalità, che oggi sarebbe la vera bandiera di un rivoluzionario.
Le parole si sono stancate. Non dicono più nulla. Le parole erano importanti. E la fame resti solo un disturbo passeggero di stomaci.
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