di GIANFRANCO DE BIASI
Di recente mi sono ritrovato a dovere affrontare un dato che ha connotato e, in parte segna ancora oggi, la condizione dei più piccoli in questa era di pandemia. L’aspetto riguarda quello del distanziamento sociale vissuta dai bambini, soprattutto in relazione ai propri simili.
In un mio documentario in fase di ultimazione (Dentro il vuoto), mi sono confrontato con uno psicoterapeuta col fine di avere quanto più chiaro possibile il prezzo che, alla lunga, pagano i ragazzi.
Ma procediamo con ordine e facciamo chiarezza su quanto non è affatto chiaro ai più.
La distanza sociale voluta per arginare i rischi di contagio è stata imposta dal governo attraverso un controverso DPCM. Tale pratica fa riferimento alla teoria sociale definita quale ‘Scala di Bogardus’. Di cosa si tratta?
Secondo una classica definizione, di seguito riportata, è un metro per misurare dei test psicologici: “La scala della distanza sociale di Bogardus è una scala di test psicologici creata da Emory Stephen Bogardus per misurare empiricamente la volontà delle persone di partecipare a contatti sociali di diverso grado di vicinanza con membri di diversi gruppi sociali, come i gruppi razziali ed etnici.” Ne è che le implicazioni e le ricadute di tale metodo siano variegate e quantomeno bizzarre; si pensi all’uso autoritario fatto dalle diverse dittature (nazismo in primis) ma anche alla pratica di distanziare i carcerati in molte prigioni statunitensi e non solo. Siamo quindi su un limes, un confine sottile che separa pratica democratica e metodi autoritari…Basti pensare che nella ricerca (e nella critica) delle scienze sociali tale scala contempla affezione, normazione, interazione e sollecita sentimenti avversi affettivi, sviluppa odio nelle persone appartenenti ad altri gruppi…
Originariamente, Bogardus si prefiggeva di analizzare il grado di simpatia se non di empatia cui era disposto un gruppo di individui nei confronti di altri. D’altra parte, l’espressione “mettere le distanze” ribadisce in pieno il distacco e la differenza da una cosa o da un soggetto. E mantenere la distanza è, ancora una volta, una modalità relazionale di distacco, un diniego rispetto a qualcosa che non si approva.
In condizioni di normalità, ciascuno è libero di azzerare le distanze o dilatarle, così come si è liberi di non essere schiavi di formule razziste. Ma quando la distanza sociale viene calata dall’alto, quando è imposta per legge (nel mondo antico ne è testimone la pars dominicia e la controparte massaricia, ad esempio o, il piano alto nobiliare in opposizione al basso popolare; così come nella storia dello schiavismo vediamo segnatamente marcati i confini entro quali agiscono gli sfruttati e quelli in cui si muovono i colonizzatori schiavisti…), quando una parte deve non incontrare una altra parte…bhé, qui comincia il problema. Nelle moderne democrazie non è contemplato una separazione per legge dell’uno da una parte. Quindi, una anomalia — unica e vecchia quanto i metodi (nell’era digitale) utilizzati per arginare la peste nera —, è stata ed è proprio il ricorso alla distanza sociale; questa volta col fine alquanto retorico del bene comune (ma su questo preferisco sorvolare poiché si aprirebbero scenari inquietanti che esulano dalla presente riflessione). Abbiamo tutti vissuto l’imposizione del dovere mantenere la distanza sociale. Ciò è stato come una improvvisa educazione ed assaggio (per converso) di quanto hanno vissuto in regimi dittatoriali. Siamo stati ri-educati a dovere “mantenere le distanze” e in molti, nel nome della ancestrale paura che abita l’uomo, hanno ravvisato nel proprio vicino il potenziale untore…Ora, il fine di evitare contagi mantenendo le distanze è molto controverso ma vado oltre.
Non vado oltre sulla riflessione che riguarda invece i bambini.
I più piccoli sono naturalmente protesi a stabilire contatti; nella pratica del toccare e scambiarsi col proprio simile, il bambino apprende. Attraverso il gioco che è assenza di distanza, il bambino cresce. Quale è il trauma che pagano i bambini per essere stati privati dalla naturale tendenza ad abbattere le distanze è possibile stabilirlo parzialmente. Di sicuro contano il tempo della privazione e i modi in cui tale privazione viene esercitata. Se la mancanza di interazione dei bambini è prolungata, i danni sono proporzionalmente più acuti. E non è in alcun modo pensabile di tenere per periodo troppo lungo i bambini costretti alla non interazione coi propri simili limitandone i comportamenti. Un grosso vantaggio che hanno i bambini rispetto agli adulti è, per dirla tecnicamente, l’aspetto plastico del cervello che ha una capacità reattiva molto più dinamica di quello di un adulto. Quindi, un bambino ha più possibilità di un adulto di riassorbire, per così dire, l’aspetto traumatico della privazione. Questa è l’unica notizia positiva che la letteratura psicoterapeuta ci fornisce e non è una notizia da poco! Certo, non possiamo entrare nelle singole sensibilità e vulnerabilità dei bambini ed è facile generalizzare. Ma, la speranza che la parte più debole, fragile di una società, questa componente che rappresenta il futuro di ogni comunità, possa uscire senza troppi lividi dal segno del virus, deve essere un auspicio per ogni persona di buon senso. I bambini devono giocare e toccarsi, abbracciarsi, condividere. Ma anche gli adulti dovrebbero ri-educarsi — sulla scorta di quanto i piccoli ci insegnano— ad abbracciarsi, condividere, amarsi. L’assenza dello spazio, l’assenza delle distanze è il centro intorno al quale si costruisce un simbolo che è il senso della vita stessa. Speriamo che i virus si dissolvano e nella nostre teste entrino gli insegnamenti dei piccoli. E che quella di Bogardus sia solo la scala che misura simpatia ed empatia.
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